venerdì 6 maggio 2016

IPOCONDRIA, O LA RICERCA DI UN NOME DA DARE ALLE COSE.



Definiamo etimologicamente il concetto di ipocondria come derivante dal greco hypokhóndria, relativo all’ ipocondrio, ovvero il luogo (precisamente la zona addominale) in cui questa malattia era pensata collocarsi in epoca antica. Nell’attuale versione del DSM (la quinta) l’ipocondria non compare più come disturbo, ma i suoi sintomi sono racchiusi all’interno della categoria diagnostica di Disturbo da Sintomo Somatico, oppure, più relativamente all’ansia da malattia, nel Disturbo da Ansia di Malattia.
Tuttavia, se cambiano le categorie diagnostiche non cambiano certo, su questa base almeno, i modi in cui i fenomeni si manifestano. La costante preoccupazione relativa all’avere, o alla paura di avere, una determinata malattia, la costante ricerca di rassicurazioni da parte di esperti e, insieme, il mai raggiunto equilibrio di fronte alle numerose rassicurazioni (se non altro, in termini razionali), restano le coordinate di riferimento quando pensiamo alla realtà ipocondriaca.
I pazienti ipocondriaci sembrano essere inclini a cambiare costantemente l’oggetto ipocondriaco parlando, ad esempio, prima di tumore, poi di infezione, di infarto, etc. (Liccione, 2012)
Si può così constatare come non sia una malattia in particolare che preoccupa l’individuo, ma che invece la malattia diventi più un pretesto per identificare qualcosa di “ignoto” che, proprio per il suo esser celato, ci fa paura, ci angoscia, portandoci a forti stati d’ansia, problematica strettamente connessa all’ipocondria.
Alcune precisazioni e riflessioni su quanto brevemente detto.

Il paziente dice di esser preoccupato di avere una malattia che, a livello medico-diagnostico, tuttavia, non ha. E però è pur vero che a livello psicopatologico-diagnostico il paziente ce l’ha eccome una “malattia”, o meglio un disturbo, che è il focus del nostro argomento. Ma allora il paziente è malato, o no?

Paziente – Dottore me lo dica per favore, sono malato oppure no?
Medico – Stia tranquillo, lei non è malato. E’ solo ipocondriaco.
Solo io trovo un alone di ironia in tutto ciò?
Come sempre, c’è da fare chiarezza tra ciò che è protocollo, ciò che segue categorie predeterminate, e ciò che è fenomeno, che ci appare in tutte le sue peculiarità. Se è vero infatti che la diagnosi medica o psicologica deve necessariamente seguire delle linee guida, è altrettanto vero che limitarci a queste condurrebbe solo ad un retorico dualismo Cartesiano mente-corpo in cui le due res viaggiano parallelamente senza mai, però, incontrarsi.
Se, uscendo dalla categorizzazione diagnostica, spostiamo la nostra attenzione sul come l’esperienza ipocondriaca venga vissuta, ci accorgiamo che (come in ogni malattia dell’uomo, e non solo del corpo, della psiche, o di chissà che altro) è solo riferendoci alla dimensione della corporeità (embodiment), dell’essere un corpo e non solo l’avere un corpo (M.Ponty, 1945) che possiamo avvicinarci di più ad una comprensione del fenomeno.
Secondo la prospettiva tracciata da Arciero e Bondolfi (2012), possiamo inquadrare l’ipocondriaco in una ottica che fa della dimensione corporale (inward) qualcosa di progressivamente estraneo alla propria esperienza nel mondo (outward). In breve, il paziente giunge a vivere le proprie attivazioni viscerali, legate a stati emozionali che, proprio perché tali (e-movere, muovere da), contestuali, come estranei alla propria esperienza. Facendo un esempio, lo studente universitario, di fronte ad una normale agitazione, non è che semplicemente male interpreta i propri segnali corporei, sempre seguendo un riduzionismo in cui una mente disincarnata dovrebbe osservare una cosalità corporea che sussiste da sé, ma non si sente più presso quei segnali che, in uno stato che definiremmo normale, sarebbero vissuti come propri.
Proprio perciò, è vero che razionalmente si ha uno stravolgimento di qualcosa che, sempre razionalmente, non sussiste. Ma è anche più vero che mai che la razionalità disincarnata è una pura utopia, così come il bambino teme il buio non perché non capisce che il buio non è pericoloso, ma perché vive in una prospettiva nella quale l’oscurità rappresenta qualcosa, paradossalmente, di ben preciso: l’ignoto, da cui chissà cosa potrebbe emergere… (nel caso dell’ipocondriaco: la malattia).
Il contesto ipocondriaco allora, diventa la malattia stessa. Non riuscendo più a vivere i segnali corporei come propri, il paziente è costretto a cercarne una spiegazione altrove. Va da sé che, all’interno della nostra cultura, è la medicina che si occupa della segnaletica corporea, ed è proprio per questo motivo che il paziente si etichetta in questo o in quel modo, perché queste etichette sono già presenti nella mondo in cui vive, in cui viviamo.
Non è un caso che spesso il paziente ipocondriaco sia anche caratterizzato da un certo egoismo. La malattia, o la paura di essa, sono vissuti realmente come timori, tanto che, quando i familiari o gli amici, che chiaramente vivono la cosa in modo molto diverso da lui, arrivano a non manifestare chiari segni di preoccupazione, il paziente può arrivare a sentirsi sminuito nelle sue richieste, escluso, quasi come se non gli fosse concesso di esser malato.
Si capisce, spero, come sia essenziale ai fini di un potenziale percorso clinico, permettere al paziente di riappropriarsi della propria visceralità, e ciò è possibile solo contestualizzando il malessere, facendone emergere i contorni e i risvolti storici in cui questo nasce, per ricucirne il senso.


BIBLIOGRAFIA
Arciero, G., Bondolfi, G. – Sé e stili di personalità. Bollati Boringhieri, 2013
DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Raffaello Cortina, 2014
Liccione, D. – Psicoterapia cognitiva neuropsicologica. Bollati Boringhieri, 2012
Merleau-Ponty, M. – Fenomenologia della Percezione. Bompiani, 2003

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