Cos’è un manicomio?
Le definizioni sono molteplici,
più o meno contorte ed astruse, ma tutte (o quasi) si riferiscono a cosa
avviene all’interno dell’istituto, non a cosa esso sia in realtà. A ben vedere,
il manicomio è un edificio, 4 mura ed un tetto sotto al quale la società
riunisce chi non è degno di farne parte. Il termine fa paura e non è un caso
che esso venga utilizzato anche da chi, causa età, di fatto non ne ha mai visto
uno. Manicomio è l’amalgama di paura, ribrezzo, riluttanza e finta pietà, per
riassumere il tutto: è proprio su questo che si basa la riflessione. La storia,
o meglio, le due facce della storia portano inevitabilmente a pensare che
rinchiudere un “matto” sia un bene, che poi lo si aiuti o lo si faccia marcire
per sempre risulta del tutto ininfluente.
Questa è la parte sicuramente più
cinica, malevola e storicamente più solida della storia moderna e
contemporanea, ma anche la migliore. Strano affermare ciò, ma qualcuno doveva
pur farlo. La “Dark side of the moon” non è visibile ma sempre presente, è
effettiva e ci permette di darla come scontata. La civiltà (o come essa
preferisce essere appellata) non è ancora pronta al contatto con l’essere che
incarna i suoi peggiori difetti, portandoli al limite e presentandoli come
parte di sé, in modo così naturale e quasi provocatorio. Non è ancora preparata
(viene supposto), pur credendo personalmente che non lo sarà mai. Sareste
pronti a mangiare un topo appena ucciso pur avendo la possibilità di cibarvi d’altro?
Sicuramente no, o perlomeno non se vi si presentasse un’alternativa e
quest’ultima la società sarà sempre pronta a crearla pur di non inglobare il
malato mentale.
Avete mai visto “Qualcuno volò
sul nido del cuculo”? Il film tratta di un manicomio ed è ambientato negli anni
’70. Pur essendo tratto da un romanzo, quindi frutto della fantasia dello
scrittore, è possibile rintracciare molto di ciò che si sta trattando in questo
articolo. Il luogo di cura in realtà è solamente una struttura chiusa dove un
“micromondo” vive e sopravvive, esclusivamente in funzione di un orologio
irreale che corrisponde all’assunzione di medicine e a “terapie di gruppo”
fittizie, basate sul nulla. Pensate che il progresso clinico, medico ed
assistenziale sia così migliorato da quell’epoca tanto da aver cambiato in modo
sostanziale la vita del malato psichiatrico? No. Senza empatia, senza amore,
senza comprensione e compassione (da sympáskhō, “patire insieme”) il tutto
risulta inutile. D’altra parte ragioniamo: ha senso utilizzare una pistola che
non abbia nessun proiettile da sparare? La pistola, nell’esempio, corrisponde
al progresso terapeutico in corso ed il proiettile all’amalgama di sentimenti
che dovrebbero circondare il paziente.
Decenni di progresso hanno
portato all’accettazione (ad esempio) del mondo gay, lesbo e transex ma non
quello del sofferente. Intendiamoci: non si sta affermando che l’alienazione
mentale non abbia bisogno di luoghi di cura, ma che essi dovrebbero essere
almeno parte integrante del mondo. Ed è qui che viene posto il problema della
finta pietà, l’altra faccia della storia. Si può aver pena per qualcuno che si
evita volontariamente? Si può disgustare e allo stesso tempo piangere chi si
aliena? La coerenza manca nel malato mentale o nel cittadino che si comporta
come affetto da personalità multipla? Il tempo ha solo cancellato i ricordi, le
battaglie e le acquisizioni di diritti fondamentali ma non il pregiudizio, il
disgusto e la voglia di separare il giusto dall’ingiusto, ponendo la civiltà
come giudice in un processo dove essa stessa è imputata.
Imparare dal passato è il primo
modo per vivere il presente e pianificare il futuro, ma tutto parte dal singolo.
Sarebbe sicuramente ora che si smetta di pensare che pietà e donazioni possano
sostituire ciò che regala un abbraccio o una carezza. Una cosa è però chiara,
in questo quadro nebuloso: iniziare a diffondere umanità partendo dalle
strutture che accolgono l’alienazione mentale potrebbe essere un punto
d’inizio.
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