All’interno delle ramificazioni professionali della
psicologia, la figura dello psicologo clinico è certamente tra le più note,
almeno dal punto di vista del ruolo.
In questa sede non voglio tediarvi con i “soliti” (perché ce ne sono fin troppi) discorsi su cosa, burocraticamente, lo psicologo clinico faccia/non faccia, cercando invece di delineare chi lo psicologo clinico sia, o dovrebbe essere, e a che cosa la sua figura rimanda, cercando di far emergere, limitatamente agli spazi qui concessi, luci e ombre a riguardo.
In questa sede non voglio tediarvi con i “soliti” (perché ce ne sono fin troppi) discorsi su cosa, burocraticamente, lo psicologo clinico faccia/non faccia, cercando invece di delineare chi lo psicologo clinico sia, o dovrebbe essere, e a che cosa la sua figura rimanda, cercando di far emergere, limitatamente agli spazi qui concessi, luci e ombre a riguardo.
Il termine clinica richiama il greco klinè, traducibile grossolanamente come il “letto dove il paziente,
sdraiato, si rapporta al medico”. Non è un’immagine casuale quella che ci
richiama oltre al lettino del medico di turno, anche alle analisi Freudiane. Lo
stare sdraiato del paziente consentiva in antichità una relazione diadica con
il medico, in cui il concetto di cura non era soltanto qualcosa di passivo che
il malato “riceveva”, ma l’oggetto della malattia era inseparabile dal soggetto
che la esperiva, conferendo cruciale importanza alla sua storia di vita. Questo
modello è indispensabile all’attuale clinica psicologica (in verità, anche
medica…), pena il perdere di vista l’essere umano a favore di un modello
predefinito.
In verità però le cose non stanno propriamente così. E’ noto
a tutti, psicologi e non, che il concetto di “patologia”, ad esempio, sia parte
integrante della letteratura non solo medica ma anche psicologica. Va
specificato che patologico può essere qualcosa solo in rapporto a ciò che può
anche non essere patologico, o
addirittura sano. Importanti studiosi
di psicologia clinica (ad esempio, Imbasciati, 2006) concordano nel ritenere
più adeguato a questo proposito il concetto di sindrome, inteso come insieme di segni e sintomi che si riferisce
sì ad un modello di malattia, ma che ammette numerose variazioni.
Non è mia intenzione entrare ulteriormente in merito alla questione terminologica, ma è bene tener presente che questo è solo un esempio, tra i molti, di come i concetti che utilizziamo, per quanto indispensabili, non ci debbano far perdere di vista il nostro oggetto di studio.
Lo psicologo clinico deve essere in grado di parlare di concetti inevitabilmente mutuati dalla clinica ad ampio raggio (patologia, salute, prevenzione, …) prendendo in considerazione la necessità di trattare di ciò in maniera analoga e differente!
E’ importante per la psicologia clinica confrontarsi con terminologie che, derivando da una “klinè” storicamente a lei precedente (la medicina, la psichiatria, la psicosomatica) debba essere in grado di non con-fondersi con esse, pena, la perdita della sua legittimità di esistere.
Perciò, l’idea di malattia, all’interno della clinica, deve necessariamente seguire un continuum tra predicibile, calcolabile, e singolare, unico, o per usare una terminologia più appropriata, non-storico (organico, causale) e storico (esperito, irripetibile) (Liccione, 2012).
Lo psicologo clinico, volente o meno, deve affacciarsi su una terra di mezzo che è tutt’altro che semplice da attraversare, ma che a mio modesto avviso è, proprio per questo motivo, affascinante e stimolante.
Sarebbero errori enormi considerare la psicologia clinica solo in termini di pura oggettivazione del paziente, ma anche, considerare la pratica clinica un esclusivo rapportar-si umano scevro da punti di riferimento.
Uno psicologo clinico ben formato dovrebbe anzi fare del rapportarsi umano una continua riflessione proprio per non incappare in sterili soggettivismi che, chiaramente, conferirebbero alla disciplina uno statuto di evanescenza.
Non è mia intenzione entrare ulteriormente in merito alla questione terminologica, ma è bene tener presente che questo è solo un esempio, tra i molti, di come i concetti che utilizziamo, per quanto indispensabili, non ci debbano far perdere di vista il nostro oggetto di studio.
Lo psicologo clinico deve essere in grado di parlare di concetti inevitabilmente mutuati dalla clinica ad ampio raggio (patologia, salute, prevenzione, …) prendendo in considerazione la necessità di trattare di ciò in maniera analoga e differente!
E’ importante per la psicologia clinica confrontarsi con terminologie che, derivando da una “klinè” storicamente a lei precedente (la medicina, la psichiatria, la psicosomatica) debba essere in grado di non con-fondersi con esse, pena, la perdita della sua legittimità di esistere.
Perciò, l’idea di malattia, all’interno della clinica, deve necessariamente seguire un continuum tra predicibile, calcolabile, e singolare, unico, o per usare una terminologia più appropriata, non-storico (organico, causale) e storico (esperito, irripetibile) (Liccione, 2012).
Lo psicologo clinico, volente o meno, deve affacciarsi su una terra di mezzo che è tutt’altro che semplice da attraversare, ma che a mio modesto avviso è, proprio per questo motivo, affascinante e stimolante.
Sarebbero errori enormi considerare la psicologia clinica solo in termini di pura oggettivazione del paziente, ma anche, considerare la pratica clinica un esclusivo rapportar-si umano scevro da punti di riferimento.
Uno psicologo clinico ben formato dovrebbe anzi fare del rapportarsi umano una continua riflessione proprio per non incappare in sterili soggettivismi che, chiaramente, conferirebbero alla disciplina uno statuto di evanescenza.
Ci si deve perciò chiedere, con Stanghellini (2014): Chi è l’uomo? Che cos’è la malattia? Che
cos’è la cura?
Questa triade di domande è fondamentale per non perdersi per
strada.
Siamo in grado di rispondere a queste tre domande? Non in altrettante tre righe, certamente. Credo anzi che, soprattutto la prima domanda, rappresenti oggi più che mai un enigma che forse solo un 2001: Odissea Nello Spazio potrebbe essere in grado di figurare.
In tutta serenità d’animo dico che, se ci dovesse intimorire partire da queste domande fondamentali, allora sarebbe più consono non partire proprio.
E’ bene anche, quindi, differenziare lo psicologo clinico da altre figure, all’interno del mondo della psicologia, che non si occupano di cura.
Che cos’hanno in comune, infatti, uno psicologo clinico ed uno psicologo della comunicazione? Ve lo dico io: la laurea in psicologia. Senza, ovviamente, mancare di rispetto a chi si occupa legittimamente di altri argomenti, considero questi due esempi molto distanti tra loro (nessuno esclude le convergenze, sia chiaro!), tanto che sarebbe auspicabile non confondere i pani coi pesci.
Sono convinto che la psicologia clinica possa avere un ruolo preponderante nell’ambito medico, ma non solo. Il rischio di far diventare questa disciplina, come spesso accade, una ancilla della medicina (o più in generale della sola biologia) è sempre alto.
Siamo in grado di rispondere a queste tre domande? Non in altrettante tre righe, certamente. Credo anzi che, soprattutto la prima domanda, rappresenti oggi più che mai un enigma che forse solo un 2001: Odissea Nello Spazio potrebbe essere in grado di figurare.
In tutta serenità d’animo dico che, se ci dovesse intimorire partire da queste domande fondamentali, allora sarebbe più consono non partire proprio.
E’ bene anche, quindi, differenziare lo psicologo clinico da altre figure, all’interno del mondo della psicologia, che non si occupano di cura.
Che cos’hanno in comune, infatti, uno psicologo clinico ed uno psicologo della comunicazione? Ve lo dico io: la laurea in psicologia. Senza, ovviamente, mancare di rispetto a chi si occupa legittimamente di altri argomenti, considero questi due esempi molto distanti tra loro (nessuno esclude le convergenze, sia chiaro!), tanto che sarebbe auspicabile non confondere i pani coi pesci.
Sono convinto che la psicologia clinica possa avere un ruolo preponderante nell’ambito medico, ma non solo. Il rischio di far diventare questa disciplina, come spesso accade, una ancilla della medicina (o più in generale della sola biologia) è sempre alto.
Certo, formarsi a cavallo tra disturbi organici ed
esperienze umane è tutto fuori che semplice, ma non sta proprio qui il motore
di ogni scienza che voglia essere coerente con il proprio oggetto di studio?
E allo stato attuale, la formazione universitaria è
sufficiente a permettere un simile scopo? Mi piacerebbe dedicare un prossimo
articolo a questo argomento che, per questioni di spazi, è destinato, almeno
per adesso, a concludersi. Conclusione che però è mia speranza possa aver
aperto delle porte e spianato la strada per dei quesiti fondamentali che
possano permettere a questa disciplina di svilupparsi in modo serio e rigoroso.
Il caso è aperto.
*riporto qui di
seguito, oltre ad alcuni accenni bibliografici su un argomento così importante,
anche l’articolo di Imbasciati e il video di Stanghellini da me citati, che
possono fungere da punto di partenza per addentrarsi nella tematica
IMBASCIATI:
BIBLIOGRAFIA:
- Liccione, D. Psicoterapia cognitiva neuropsicologica.
Bollati Boringhieri, 2012
- Molinari, E., Labella, A., Psicologia clinica: dialoghi e
confronti. Springer, 2007
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